A molti nella vita è capitato, o capiterà, di scoprirsi irrealizzati, insoddisfatti del proprio passato e presente, con davanti un futuro a dir poco incerto. E si può arrivare al punto di smettere di desiderarlo un futuro tanto avvilente, che sembra promettere null’altro se non insuccessi e a causa del quale si vorrebbe solo sparire.
Martina è rimasta letteralmente intrappolata in questa fase della sua esistenza, finendo anche per allontanare coloro che la amano, perché tanto non potranno mai capirla, ammesso che voglia farsi comprendere. In questo suo sempre più ristretto universo, dal quale lei per prima sta pian piano scomparendo, l’unica àncora di salvezza che è convinta possa tenerla a galla, seppur in precario equilibrio, è il controllo del cibo, tra restrizioni, privazioni e il maniacale conto delle calorie.
La prima forte spinta che aiuterà Martina a desiderare realmente di uscire dal baratro in cui è precipitata, nonché a tornare ad accettare di amare, amarsi ed essere amata, le arriverà grazie a un incontro inaspettato con un uomo davvero speciale: un anziano, meraviglioso signore sopravvissuto all’Olocausto.
“Razioni d’amore” di Silvia Menini è un romanzo coinvolgente nella trama e potente nei temi trattati, che invita a riflessioni più che mai attuali in questa nostra società e contemporaneità soverchianti dove spesso, invece di riuscire a ottenere o concedersi la possibilità di godere della vita e apprezzarne il valore, si rischia di rimanerne schiacciati. In questo senso, Martina, diventa lungo la narrazione un chiaro simbolo di forza di volontà e di speranza.
E ora lasciamo la parola all’autrice, Silvia Menini:
- Silvia, partiamo dalla tua protagonista, Martina, una ragazza, o meglio, una giovane donna che alla soglia dei trent’anni è alle prese con una profonda crisi personale. La frustrazioni e l’insoddisfazione da cui è afflitta credi riguardino un po’ tutta la sua generazione?
Assolutamente sì! Sicuramente esistono delle casistiche particolari, ma credo anche che molte volte siamo noi stessi ad auto-sabotarci. Ci poniamo degli obiettivi “preconfezionati”, spesso dettati dalla società e da quello che pensiamo che gli altri si aspettino da noi.
Spesso ci dimentichiamo di guardarci dentro e ascoltarci per capire veramente cosa ci fa stare bene e se quello che la società ci impone effettivamente è alla nostra portata.
Dall’altro lato, ci si deve giornalmente confrontare con degli stereotipi assurdi ed è scontato e matematico che non saremo mai all’altezza. E quindi?
Quello che ho imparato con gli anni e un bel po’ di “batoste” è che ognuno ha la propria strada da percorrere. Può non essere quella che pensavamo quando eravamo piccole, o quella che i nostri genitori avrebbero voluto per noi… ma è la nostra strada, fatta di esperienze, sbagli, incontri, distacchi… ed è per questo che è unica.
- Nel tuo romanzo un tema centrale è quello dei disturbi alimentari che spesso hanno anche a che fare con il bisogno d’amore. Il cibo che ruolo, che funzione, che peso ha per Martina nel colmare questa carenza?
Il cibo da sempre rappresenta un modo per colmare carenze emotive.
I film stessi, nel loro piccolo, rappresentano in maniera esemplificativa questo concetto.
La protagonista che si ingozza di gelato sul divano in lacrime per un amore finito o per un lavoro perso… Come dimenticarsi, del resto, della mitica Bridget Jones?
Il cibo da sempre rappresenta una coccola, un momento di condivisione e di piacere. È quindi la rappresentazione non solo di sostentamento innato e naturale ma anche uno strumento per esternare le proprie emozioni o anche esercitare su di esse una sorta di controllo, riempire un senso di vuoto, colmare carenze oppure anche privarsi del piacere perché non ci si sente di meritarselo.
Per Martina stessa il cibo è un modo per controllare una parte della sua vita, visto che tutto il resto sembra sfuggirle di mano. Se non posso farmi amare da chi vorrei, se non posso raggiungere i miei obiettivi perché non dipendono totalmente da me, e nonostante io ci provi in ogni modo… ecco che esercito il controllo sull’unica cosa che posso effettivamente gestire. E forse… qualcuno si accorgerà anche di me e della mia sofferenza.
- La magrezza come “urlo silenzioso” che a un certo punto, per chi circonda Martina, diventa impossibile non “udire”. Ma quanto è difficile dall’esterno saperlo ascoltare, questo urlo, e provare a “rispondere”?
Nella vita, mi sono resa conto, è più facile far finta di nulla o, addirittura, giudicare schivando l’empatia.
Tutti noi siamo sommersi di preoccupazioni, problemi, agende fitte e non desideriamo altro che un po’ di spensieratezza. Ecco, quindi, che l’evitamento diventa la via più semplice, sperando che i problemi si risolvano da soli. Ma non è sempre scontato e, spesso e volentieri, si decide di offrire una mano, una parola, un sorriso, quando è troppo tardi.
L’amore però è anche questo: mettere da parte, per una volta, i propri problemi per dedicarsi a quelli degli altri. Un grande arricchimento personale, aggiungerei.
- Ci parli del Signor Melato e del potere che la sua drammatica, commovente storia ha sulla tua protagonista?
Non voglio “spoilerare” nulla, ma Melato rappresenta per Martina una scappatoia dai propri problemi, che le permette anche di effettuare un ridimensionamento. È una figura amica, un alleato nella propria crescita personale, che l’aiuta a capire cosa conta veramente nella vita e, soprattutto, a realizzare che non sempre ci si può nascondere e che vivere appieno può portare a grandi sorprese.
- C’è una frase di Martina che mi ha molto colpito e che estrapolo da una conversazione con il Signor Melano:
«Ha paura della morte?»
Rifletto. La domanda mi ha spiazzata. «Più che della morte direi che ho paura della vita», dico più a me stessa che a lui.
Perché Martina ha paura della vita?
Perché vivere è complicato. Mettersi in gioco è complicato. Perché si rischia di fallire, di cadere, di sbucciarsi un ginocchio. Insomma… quanti vivono la vita senza veramente viverla? Lasciare le redini e lasciarsi andare alle onde è più difficile. Si rischia, questo sì, ma può portare anche a grandi soddisfazioni.
Io credo fermamente che anche se si sbaglia, se si cade, ne vale comunque la pena. Vivere in una gabbia d’oro, ammirando il mondo da un trono in cui nulla ci può toccare può sembrare una scelta sicura. Ma vivere appieno la vita, sentirla sulla propria pelle, permette anche di vivere le emozioni in maniera amplificata.
Cosa intendo? Io amo profondamente una canzone di Frank Sinatra, “My Way” (in realtà scritta da Paul Anka), che io spero, in punto di morte, di sentire totalmente come mia.
Ho vissuto una vita piena. Ho viaggiato in lungo e largo per ogni autostrada.
E di più, molto di più di questo, l’ho fatto a modo mio
Qualche rimpianto ci sta
Ho amato, ho riso e pianto
Ho avuto le mie soddisfazioni, anche la mia parte di sconfitte.
- Il Signor Melato non è un’invenzione narrativa, come riveli nei ringraziamenti. Cosa ha significato per te conoscere l’uomo che lo ha ispirato?
Melato, nonché Giovanni Marcato nella realtà, ha rappresentato per me un grande maestro di vita. La storia di Martina è totalmente inventata, quella di Marcato è invece pari pari a quella che lui stesso mi ha raccontato. Era la mia tesina a conclusione del liceo e mi ricordo che partivo da Verona con l’ex fidanzato di mia sorella per andare a trovarlo e registravo tutto quello che diceva. Non ho mai pranzato con lui, purtroppo, ma so che sarebbe stato un suo desiderio. Per molti anni l’ho sentito periodicamente e il mio rimpianto è di non averlo visto per un’ultima volta. Nella nostra testa c’è sempre tempo per tutto e si tende a rimandare, ma il tempo è impietoso. E una volta, non ha più risposto al telefono. Lo porterò sempre nel cuore perché il suo racconto mi ha fatto comprendere profondamente la cattiveria dell’uomo e a cosa può portare. Mi ha fatto toccare con mano la sofferenza provata da così tante persone. Mi ha fatto rivalutare i miei problemi che hanno assunto una sfumatura completamente diversa.
Ma tutti i suoi racconti erano accompagnati dal sorriso. Il sorriso di un uomo che è sopravvissuto e che amava la vita più di ogni altra cosa. Ammetto che io, al suo posto, magari mi sarei lasciata morire e forse non avrei lottato così tanto.
Grande ammirazione, ecco. E ammetto che tutt’ora, alla mia “veneranda età”, lo penso ancora.
- Prima abbiamo parlato del bisogno di amore di Martina. Ma quanto è complicato per lei, nella fase della sua vita in cui si trova, amare, lasciarsi andare a questo sentimento?
“La paura è una brutta bestia”, direbbe qualcuno. Paura del rifiuto, di doversi confrontare con il fallimento, con la solitudine, con la sofferenza. Quando invece, non si è mai soli. Capirlo, però, è complicato. Essere rifiutati ci mette di fronte a tante emozioni diverse e questo ci blocca. È meglio chiudersi a riccio… fino a quando non si comprende che ciò che si perde è ben peggiore di una porta in faccia.
- Quando e come mai hai deciso di scrivere “Razioni d’amore”?
La noia è sempre stata mia nemica. Avevo questa tesina e il lavoro mi alienava (leggete “Momenti di trascurabile follia” per capire cosa intendo). Così ho deciso di trasformare la tesina in un romanzo. Una frase di Marcato che mi aveva colpito era quella dove raccontava che quando era entrato nel campo di concentramento pesava come un uomo normale della sua età e, quando ne è uscito, pesava quanto un bambino.
Parlava spesso della fame che provavano e con cui avevano ormai imparato a convivere, del fatto che, una volta usciti, hanno dovuto reimparare a mangiare perché lo stomaco gli si era talmente ristretto che non potevano semplicemente tornare a nutrirsi normalmente.
E così, nella mia testa, è nato questo paragone: il digiuno forzato e il digiuno volontario. Il desiderio di vivere nonostante tutto e la ricerca di una morte interiore.
- C’è un messaggio in particolare che hai voluto trasmettere attraverso questa storia e che vorresti arrivasse a lettrici e lettori?
Un solo messaggio: vivete, amate, rischiate, lanciatevi senza paura. Afferrate la vita e mordetela con tutta la forza che avete. Scoprirete che, nonostante tutto, ne vale la pena.
Adesso parliamo un po’ di te!
- Da dove nasce la tua passione per la scrittura?
Sono sempre stata una bambina solitaria. Amavo leggere e la solitudine era mia fidata compagna. Non ne ho mai avuto paura perché, di fatto, i miei libri erano i miei compagni di viaggio.
Poi, un giorno, mi sono resa conto che avevo anch’io tanto da raccontare e così…
- E la scrittura non è la tua unica passione, infatti sei anche naturopata. Come ti sei avvicinata a questa pratica di medicina alternativa?
Fin da piccola ho sofferto di dermatite atopica e sono stata curata da mamma con l’alimentazione e con rimedi naturali. Da qui la mia passione per la prevenzione, per il rispetto del mio benessere.
Poi ho capito col tempo che noi siamo un tutt’uno con mente, corpo e psiche, che sono strettamente interconnessi tra loro. La naturopatia è l’emblema di questo concetto.
- Prossime pubblicazioni in cantiere?
A ottobre uscirà un libro dedicato alla nutrizione (“Il lato amaro dello zucchero”). Non sono una nutrizionista, questo ci tengo a precisarlo, ma poiché ho testato su me stessa l’importanza dell’alimentazione, ed essendo pure giornalista, ho deciso di raccogliere in un testo tutte le mie ricerche in modo da poterle condividere.
- Infine, visto che sei un’autrice molto prolifica, e non solo in ambito narrativo, hai qualche consiglio da dare a chi si sta approcciando per la prima volta alla scrittura o alla pubblicazione del proprio libro?
Fregatevene di puntare a una casa editrice di grandi dimensioni, fregatevene di raggiungere qualsivoglia obiettivo. Se scrivere vi fa stare bene, fatelo. E soprattutto…. leggete leggete e leggete.
“Razioni d’amore” di Silvia Menini
27 Novembre 2018
Pagine 164
Prezzo di copertina 13,00 euro