Intervista a Mirco Cogotti con “Mezzo giro di velluto”

Con il suo romanzo d'esordio pubblicato da Edizioni Effetto, Mirco Cogotti ci racconta un viaggio alla ricerca delle proprie origini e della propria identità, un legame tra tradizione e innovazione in cui si pone l’accento sul problema dell’incontro con il diverso all’interno di una piccola comunità

Scritto da Dayla Villani
Velluto

Nel suo primo romanzo “Mezzo giro di velluto”, l’autore Mirco Cogotti, di origine sarda ma parigino di adozione, descrive le vicende di una famiglia a Santa Gisa: un immaginario piccolo centro del sud-ovest della Sardegna, in piena crisi culturale e demografica, intento a fronteggiare per la prima volta gli sbarchi dei clandestini nelle coste limitrofe.

La storia prende il via con la morte di Ciccitta Lampis, la maga del paese (sa bruscia, in sardo), che lascia la nipote Lia e le figlie Ruth, Ester e Noemi in condizioni economiche difficili. Dopo una lunga riflessione, l’unica soluzione possibile per le sue eredi sembra la vendita del numero venti, un edificio di proprietà della famiglia da generazioni.
Sarà l’arrivo di Giorgio Albert da Parigi a stravolgere ogni piano: prima del decesso, Ciccitta ha firmato con lui un contratto di locazione perché possa aprirvi una libreria. La follia del progetto oltraggia tutta la comunità: leggono in troppo pochi a Santa Gisa perché possa avere successo.

Il numero venti si farà crocevia di romanzi e di tradizioni perdute che non solo ricorderanno alle Lampis quanto della loro storia abbiano messo da parte, ma faranno soffiare impetuoso il vento del cambiamento su una comunità che ha dimenticato se stessa, fino a diventare un motore di integrazione tra vecchio e nuovo, locali e forestieri.

L’intervista all’autore, Mirco Cogotti:

  • Partiamo dall’idea di romanzo? In che modo ti hanno ispirato i personaggi e le ambientazioni di Grazia Deledda?
Velluto

Mirco Cogotti

L’idea del romanzo mi è venuta mentre mi trovavo in fila dal medico, e leggevo un articolo la cui autrice notava che nel proprio paese d’origine ci fossero ben sei estetiste e nessuna libreria. Intrigato, mi sono domandato cosa mai sarebbe accaduto se all’interno di una piccola comunità qualcuno avesse aperto una libreria. E da lì è nato l’incipit del romanzo.
“Canne al vento” è entrato in gioco quando ho iniziato a interrogarmi sulla comunità e sui personaggi da raccontare. Ho pensato che sarebbe stato interessante far rivivere le sorelle Pintor e i molti abitanti di Galte a Santa Gisa, vedere quali sarebbero state le loro esistenze e le loro scelte proiettate nella nostra contemporaneità. Ho cercato di raccontare un mondo in cui ancora la tradizione e il riconoscimento sociale possono avere il loro peso, ma nel quale è anche possibile avere una salvezza che esuli dal matrimonio, perfino per una famiglia di donne sole.
Frequento Grazia Deledda e i suoi romanzi fin dall’adolescenza, e “Canne al vento” mi ha accompagnato in diversi momenti della mia vita. Si tratta probabilmente del libro che ho letto più volte in assoluto, così è stato naturale pormi nei suoi confronti in maniera dialogica.

  • Giorgio Albert, un forestiero che decide di aprire a Santa Gisa proprio una libreria. Cosa c’è dietro questo personaggio? Quali sono le motivazioni intrinseche di questa scelta e di questo forte senso di collettività.

Sicuramente il senso della collettività è un aspetto molto comune a chiunque ami i libri e quello di Giorgio è un personaggio che i libri addirittura li venera. Nella sua natura bizzarra e sognatrice è consapevole del fatto che essi siano un mezzo di comunicazione eccezionale, una medicina ai mali della vita e “oggetti magici” quando la sterile realtà ha bisogno di un piccolo aiuto. Tra le loro tante doti, i libri – e in particolare i romanzi – contano quella di farci vivere le vite altrui e allenarci all’empatia e all’immedesimazione. Entrambe indispensabili per accogliere l’altro e il diverso.
Poi Giorgio Albert è anche un giovane che realizza un sogno, come tanti tra noi hanno fatto: lascia Parigi, la sua casa, e si trasferisce in un piccolo centro per aprire una libreria. Il suo progetto ha tanta legittimità quanto la ha avuta il mio di trasferirmi a Parigi, indipendentemente dalle sterili logiche di profitto che troppo spesso condizionano la mia generazione.

  • Bullismo, accoglienza degli immigrati e atmosfere magiche. Hai voluto lanciare un messaggio in particolare su questo concetto?

Sono temi che nel romanzo compaiono su livelli differenti, ma finiscono per convergere all’interno di un discorso politico.
Il bullismo si gioca in termini principalmente di trama, sebbene sia ben rappresentativo di uno dei mali che affliggono le nostre comunità, grandi o piccole che siano. Personalmente l’approccio punitivo verso il bullo non mi trova sempre d’accordo. Credo sia prima necessario comprendere il contesto nel quale esso matura e lavorare proprio su questo. Nel romanzo cerco quindi di mostrare un’idea per cui laddove esiste bullismo è la collettività che deve mettersi in discussione e capire come lo abbia reso possibile.
Ritroviamo le atmosfere magiche più su un piano letterario. Sulla mia formazione il realismo magico di Isabelle Allende ha giocato un ruolo fondamentale. “La casa degli Spiriti” è uno dei romanzi a cui mi sento più filosoficamente vicino, in particolare per la centralità e l’umanità del personaggio di Clara del Valle. Questa stessa centralità l’ho voluta dare al personaggio di Ciccitta Lampis, che con la sua magia si fa narratrice di quanto accade dopo la sua morte. C’è chiaramente qualcosa di politico: il narratore onnisciente è la voce di Dio, che è quasi sempre un uomo. Mi piaceva l’idea che per una volta fosse una donna.
Da diversi anni, il tema dell’accoglienza degli immigrati riguarda le nostre vite, in Sardegna e in Italia. Mentre scrivevo, sui media è esploso il caso Riace. Non so quanto mi abbia influenzato sulle ultime stesure – il romanzo ne conta ben sei – ma certamente il modello che ho cercato di proporre non è di molto dissimile. Mi sono interrogato, così come Mimmo Lucano, sull’opportunità di arginare la crisi demografica e la perdita di tutto un patrimonio legato alle nostre piccole comunità con l’arrivo di nuove genti dal mare.
Uno sguardo alle tradizioni come terreno di incontro e non barriere da mettere tra i popoli. Tuttavia, per quanto simili, i nostri modelli divergono su un punto: “Mezzo giro di velluto” non mette un leader a capo di questa esperienza, ma la collettività. Per me è un aspetto importantissimo, in quanto fa riferimento a una delle più spinose problematiche del dibattito civile contemporaneo, in cui i leader assurgono a un ruolo centrale, a discapito delle idee.

  • Tradizione e innovazione. La famiglia e il bagaglio culturale annesso sono una zavorra o una marcia in più?

Credo dipenda da come a esse decidiamo di raffrontarci.
Sono una zavorra quando le viviamo come impedimenti. Ogni volta in cui ci troviamo a usarle come argomento per evitare di guardare al mondo con curiosità, per chiuderci nel nostro nucleo e rifiutare l’altro, ecco che possono diventare vere e proprie prigioni.
Tuttavia, se decidiamo di usarle per conoscere più a fondo noi stessi e le nostre origini, ecco che possono trasformarsi in strumenti indispensabili non solo per accogliere l’altro, ma anche per affrontare l’esistenza come il più avventuroso dei viaggi. Del resto, occorre capire da dove veniamo per sapere dove desideriamo andare.

  • Il viaggio è un processo di conoscenza. Nel tuo libro il lettore viene trasportato in un viaggio alla riscoperta della propria identità. Quanto ha influito la tua indole di viaggiatore sulla riscoperta delle proprie origini?

Ho cercato la Sardegna in tutti i miei viaggi in giro per il mondo. A Cipro, dove sui monti Troodos guardavo alle similitudini con la Barbagia. In Grecia, mentre attraversavo un Peloponneso che ancora portava le tracce degli incendi del 2018, e pensavo a quante volte le fiamme avessero devastato anche la mia terra. A Cuba, quando arrivato a Camaguey ho letto di un ristoratore sardo, e mi sono precipitato nel suo locale per un buon piatto di pasta. In Bretagna, dove i costumi tradizionali sono così simili ai nostri da sorprendermi ogni volta in cui mi ritrovo a guardarli.
La riscoperta delle mie origini credo sia partita proprio da questo mio essere rimasto ostinatamente sardo nonostante il trascorrere degli anni e l’avvicendarsi dei luoghi. In fondo, il mio sguardo sul mondo resta quello di un bambino cresciuto a Sant’Anna Arresi, nel basso Sulcis, tra il mare e le verdi colline.

“Mezzo giro di velluto” di Mirco Cogotti
25 ottobre 2022, Edizioni Effetto
Pagine 384
Prezzo di copertina 19,00 euro

 

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