Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio ci raccontano il loro romanzo d’esordio

Scritto da Carlotta Pistone
Sogno

“Non era questo che sognavo da bambina” (Garzanti) è il titolo del romanzo d’esordio scritto a quattro mani da Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio, due giovani e promettenti autrici diventate amiche proprio grazie alla loro passione per la scrittura e che, con la pubblicazione di questo primo libro, sicuramente un loro grande sogno l’hanno appena realizzato!

Una volta varcata la soglia della vita adulta, a riguardarci indietro, quasi tutti ce l’abbiamo da rievocare almeno un sogno giovanile rimasto irrealizzato. Un sogno mancato che, a ripensarci, può strappare un sorriso. Oppure può generare rimpianto. O ancora essere riconosciuto come lo stimolo – positivo o negativo – che ci ha permesso di diventare ciò che siamo oggi. Che poi ammettiamolo: spesso l’aver rinunciato a ciò che da ragazzi – ingenui / fantasiosi / megalomani – avremmo voluto essere da grandi, non necessariamente si è rivelato tutto sto danno, anzi.

Ida, la giovane stagista protagonista di “Non era questo che sognavo da bambina”, quando la conosciamo ci sta giusto entrando nella vita adulta, con tutti i problemi correlati del caso, in primis quelli lavorativi. Ed è proprio a questa fase epocale – fatta di faticose rinunce e inaspettate scoperte di se stessi – che Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio hanno dedicato il loro romanzo d’esordio. Una fase che Ida affronta con una certa ostilità, corredata anche di momenti decisamente comini, non per questo, però, meno realistici e veritieri…

Ma ora lasciamo la parola alle autrici, Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio.

  • Partiamo da un rapido giro di presentazioni. Sara e Jolanda, come vi siete conosciute e quando è scattata la scintilla che vi ha portato a unire testa e forze per dar vita al vostro romanzo?

Sara: Eravamo nella stessa classe alla Scuola Holden. In realtà ci siamo ignorate per quasi tutto il tempo, avevamo giri diversi. Poi un giorno Jolanda mi ha chiesto di lavorare insieme al progetto finale, quello del diploma. Così, dal nulla. Tra di noi è cominciata al contrario: di solito finisci a scrivere con gli amici, noi invece siamo diventate amiche scrivendo insieme. E poi il caso ha voluto che ci trovassimo a vivere le prime esperienze nel mondo del lavoro contemporaneamente. Ci premevano gli stessi temi e avevamo una sensibilità affine. Decidere di lavorare insieme a questo progetto è stata la cosa più naturale del mondo.

Jolanda: La scintilla che mi ha portato ad avvicinarmi a Sara è stata proprio la scrittura. Avevo letto la sceneggiatura di un suo cortometraggio ispirato a un racconto di Carver. Ricordo che quando conclusi la lettura pensai: ‘Mi piacerebbe scrivere qualcosa insieme a lei’. Eravamo abituate a scrivere in gruppo e in coppia, ma non avevo mai trovato qualcuno con cui avrei sinceramente voluto collaborare. Sentivo nelle sue parole qualcosa di profondamente simile a me, non tanto per lo stile, quanto per lo sguardo.

Sogni

Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio – Foto © Francesca Ventriglia

  • In “Non è questo che sognavo da bambina” affrontate un passaggio quasi obbligato e delicato per tutti i giovani: l’ingresso nel mondo del lavoro (precario), che spesso si rivela traumatico e carico di disillusione. Come succede alla stagista Ida. Ci parlate della vostra protagonista, dei sogni che è costretta ad accantonare e del suo primo ostico approccio con l’ambiente lavorativo in cui si trova catapultata?

Sara: Ida è una protagonista così ingombrante che a volte, quando parlavamo di lei, ci sembrava di parlare di una persona reale. Voleva fare la sceneggiatrice e invece fa la social media manager, lavoro che non sa bene che lavoro sia e nessuno glielo spiega. Passa le sue giornate davanti a uno schermo e si domanda se non stia buttando via la sua vita, lei che sognava di scrivere per il cinema e invece scrive per Instagram. E in più l’ufficio è un ambiente severo, con le sue regole non scritte a cui è davvero complicato attenersi. Raccontiamo il momento dello strappo, quello in cui la bolla scoppia e devi guadagnarti da vivere non solo mettendo da parte “i tuoi sogni”, ma anche rivalutandoli, riflettendo sul fatto che la vita che sognavi da piccola potrebbe non essere quella che vuoi da adulta.

Jolanda: Quando abbiamo iniziato a tratteggiare il personaggio di Ida, ci siamo dette che avrebbe dovuto rappresentare la precarietà. Non solo sul lavoro, ma anche negli affetti, nelle relazioni, nei sentimenti e nei progetti. Volevamo un personaggio traballante, sul punto di franare da un momento all’altro. Ma allo stesso tempo esagerato, eccessivo, con un qualcosa di ingenuo. Se non ci fosse stata questa ingenuità – che si manifesta nel suo tono a volte esasperato e lamentoso nei confronti di tutto e di tutti – non avremmo mai potuto raccontare lo strappo di cui parlava prima Sara: la delusione, l’insofferenza, la frustrazione prima del compromesso, prima della maturità.

  • L’amicizia è un altro aspetto molto importante del romanzo. Ida ha le sue amiche storiche con cui confidarsi, o fare i conti. E poi ci sono i colleghi di lavoro, con i quali non parte proprio benissimo, e forse non solo per colpa loro…

Sara: È un aspetto su cui molti lettori hanno puntato l’attenzione, questo. È vero che i colleghi di lavoro non muoiono dalla voglia di fare amicizia con Ida, ma neanche lei si sforza più di tanto. Ed è così. Ma ci sono situazioni che non tirano fuori il meglio di noi, contesti che ci inibiscono, in cui perfino chiedere a una persona di prendere un caffè diventa un’impresa sovrumana. Ci sono situazioni in cui sei “il più debole”, mentre gli altri hanno una posizione di vantaggio – i colleghi di Ida sono in gruppo (un vero branco), conoscono bene l’ambiente e il lavoro. Lei è sola. D’altro canto, però, anche quando riesce a integrarsi nel gruppo non si arriva mai a parlare di amicizia. Neanche con Jasmine, l’altra stagista. All’interno dell’ufficio s’innescano meccanismi che rendono complicato costruire rapporti autentici. L’unica amicizia sincera, in fin dei conti, è quella con Gio.

Jolanda: Gio è una figura cardine perché incarna la vera amicizia, quella storica, che non ha pretese o aspettative, quella che non ti giudica e con cui puoi essere libero di mostrarti per come sei. Ma, paradossalmente, è un personaggio assente all’interno del romanzo. Non solo da un punto di vista geografico – vive a Londra, lontana da Milano e da Ida -, ma anche perché abbiamo deciso di non darle parola quasi mai. Assomiglia più a una presenza, un fantasma, un’immagine che abbiamo voluto fissare in alto, un po’ come paragone rispetto ai nuovi rapporti che la protagonista stringe all’interno dell’ufficio, un po’ come messaggio di ottimismo: è vero che i rapporti d’amicizia da adulti sono più complicati ed evanescenti, ma i legami veri possono resistere, nonostante le distanza e i profondi cambiamenti.

  • Voi, come Ida, lavorate proprio in ambito di comunicazione e social, universo che avete descritto con ironia, certo, senza però allontanarvi troppo dalle sue reali dinamiche – e dal suo linguaggio. È stato divertente poterlo raccontare così schiettamente in un libro?

Sara: Non dico che sia stata la cosa più divertente, ma quasi. Essere parte di un contesto non significa non poterlo prendere in giro, anzi. Ti aiuta a mettere la giusta distanza tra te e il lavoro che fai, e a prenderti un po’ meno sul serio.

Jolanda: “Divertente” è la parola che usiamo più spesso quando ci chiedono come sia stato scrivere in due. Di certo all’inizio non avevamo in progetto di pubblicare un romanzo. Abbiamo iniziato a lavorare a questa storia nei – pochi – momenti liberi: la sera, o nei weekend. Lo facevamo proprio perché per noi era un momento di condivisione, ma anche di leggerezza, di risate, di sfogo per tutto quello che vivevamo al lavoro e sì… anche di divertimento.

  • Quindi, voi vi siete divertite e il risultato è indubbiamente divertente! Ma non solo. Infatti il vostro romanzo offre anche diversi spunti di riflessione. Qual è il messaggio rivolto ai giovani che avete voluto trasmettere, veicolare con “Non è questo che sognavo da bambina”?

Sara: Credo che il messaggio sia insito nell’intenzione del romanzo, mettere in luce una condizione, quella del precariato, che tutti vivono ma che nessuno racconta in forma narrativa. E quindi direi che può essere riassunto in: non siamo soli. Va bene fallire, mettersi in discussione, lamentarsi, cambiare strada, cambiare idea, cambiare obiettivo. È tutto lecito, e se qualcuno vi dice che non potete lamentarvi, lamentatevi più forte. Questo non vuol dire essere inattivi o distruttivi, solo riconoscere le difficoltà oggettive della nostra generazione.

Jolanda: Diciamo anche che il messaggio del romanzo non è qualcosa che si decide a tavolino. È qualcosa che prende forma e che emerge alla fine della scrittura, anche per chi scrive. Di sicuro, questo aspetto della solitudine è quello che ci ha travolto con maggiore forza. E, devo dire, inaspettatamente. Ci siamo rese conto che la nostra urgenza di scrittura era data proprio dalla voglia di non essere sole, in un momento in cui, a pensarci bene, lo eravamo molto. O, almeno, era così che ci sentivamo. Credo poi che la scelta di aver portato avanti questo progetto in coppia sia un’ulteriore conferma di quanto detto.

 

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  • Con il vostro esordio letterario siete riuscite in un’impresa non semplice e tutt’altro che scontata: scrivere un romanzo a quattro mani che sembra opera di una persona sola. In che modo vi siete organizzate per lavorarci, sia nella fase di ideazione che di scrittura?

Sara: La fase di ideazione è stata semplice, la storia è cresciuta insieme a noi, è stata parallela alle nostre esperienze e a quelle delle persone che ci stavano attorno. È partita sotto forma di newsletter, ci vedevamo dopo il lavoro e nei weekend e non facevamo altro che scrivere. È iniziato tutto dalle mail, erano per noi uno spazio per sfogarci, per raccontarci. Quando la storia è diventata un romanzo, abbiamo definito meglio la linea narrativa, abbiamo messo in scaletta gli eventi e ci siamo divise i capitoli. Poi ce li siamo scambiati, li abbiamo scritti e riscritti. C’è una fiducia totale tra di noi, quello che scrivevo io era anche di Jolanda nel momento stesso in cui lo stavo scrivendo, e viceversa.

Jolanda: Si pensa sempre che scrivere in due sia un’impresa difficile, in realtà per noi è stato tutto abbastanza naturale. Ma al di là delle affinità elettive che ci hanno portato ad avvicinarci, o della tecnica che ci ha imposto ritmi e scadenze da rispettare, credo che l’aspetto più importante di questa collaborazione sia stato riuscire a essere umili. Ricordo che, per un periodo, volevo invertire rotta e trasformare la storia di Ida in un progetto digitale, da fruire su Instagram. Sara è stata subito accogliente, non ha dubitato un secondo dell’intuizione. Ci siamo messe all’opera per realizzare una strategia, le grafiche, i copy… poi mentre ci stavamo lavorando, ci è stato chiaro che non era stata proprio una buona idea, e abbiamo fatto dietrofront. Questo è soltanto un aneddoto, però, ecco: la disponibilità a dare credito a ogni proposta, ad assecondarla, ad esplorarla, è qualcosa di unico, e penso sia questo ad averci permesso di lavorare così bene insieme.

  • Sara e Jolanda, chiudiamo con una domanda che non posso non farvi: da bambine cosa sognavate di diventare? E ora che siete grandi, come procede con la realizzazione dei vostri sogni?

Sara: Da persona che ha sempre voluto fare la scrittrice, pubblicare un romanzo è di certo la realizzazione di un sogno.

Jolanda: Mi accodo alla risposta di Sara, di certo la scrittura è sempre stato un obiettivo, un desiderio e un’aspirazione. Ma ultimamente tutto questo parlare di sogni mi sta facendo riflettere sul fatto che la “realizzazione” sia l’aspetto meno interessante del sogno. Forse bisogna tenerlo lì, coccolarlo e fantasticarci sopra, senza avere la smania di renderlo reale, senza pensare di averlo davvero raggiunto. Sennò, quando ci si riesce, rischia di svanire tutto. E poi, che cosa rimane?

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